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Sogni al bar Santos

Roma – Ciak si scrive – 12/05/2006

In un’atmosfera da radical chic di provinci, la sua mente vola va in gruppo sogni, che non erano affatto da radical chic, ma da indomita eroina. Come ogni volta che ritornava in quella città, lei lo aspettava al solito bar godendo di quella antica forma di saper sognare a occhi aperti, dove riusciva a captare quelle esaltante trasfigurazione della realtà. Eppure, fuori di lei, c’era un rumore assordante di piattini, tazzine, bicchieri, campanelli del cassetto della cassa, clacson di auto in sosta, bloccate dall’inferno metropolitano… Era in anticipo, lo era sempre, soprattutto quando aspettava lui, perché, per non alterare l’anatomia della vera capacità di sognare, lei percepiva che l’attesa doveva avere la sua parte prima che la sagoma di lui si materializzasse. Si sedeva nello stesso angolo con le spalle a un legno translucido che sapeva di finte foreste, il cui taglio sembrava avere inciso anche le facce degli avventori e da li guardava tutto senza vedere nulla, perché la forma dei voli della sua mente restava intatta. Così immobile e sospesa, udiva le parole dei sogni che raccontavano se stessi, mischiando il passato recente di quella relazione con un probabile futuro, avvertendo la crescita progressiva di un altro corpo dentro di lei, come se nel ventre prendesse forma una specie di liquido nutritivo, una placenta che garantiva la vita di quei sogni. In quel liquido sprofondava nella pace di un’appagante tensione emozionale che eliminava ogni banalità, ogni stantia routine nelle immaginare il futuro con un uomo: di storie ne aveva avute tante, senza mai permettere che prendessero la forma dell’arredo di quel bar. Poi l’immagine di lui irrompeva: madre natura lo aveva dotato di un’eleganza è una bellezza che davano agli artisti il senso della loro ricerca nell’equilibrio di linee e colori… un cenno di saluto con una leggera inclinazione del capo e poi lei si alzava per seguirlo fuori, attraversando quei rumori assordanti, coperti dal velo dei loro sguardi pieni del desiderio di rivedersi. La vita metropolitana nelle ore di punta le dava un disagio psico-fisico contro il quale aveva creato sempre i suoi antidoti, ampie circonvoluzioni del pensiero per rendersi immune dagli attentati di una realtà così mal congegnata e lui era, in ordine di forza e di tempo, l’antidoto più intenso e più recente contro tanta pochezza. Il bar Santos era il crogiolo di tutti i più deleteri ingredienti della periferia metropolitana, una barriera per il manifestarsi delle fattezze di quei sogni, eppure la presenza di quell’uomo nella sua vita sfumava ogni immagine rimandandola nell’eden delle emozioni, un miracolo che accresceva la speranza nel poter prevedere che quella da storia antico candelabro in oro non si trasformasse in una parure di infissi in alluminio anodizzato.