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Fuochi d’artificio

Quella notte, nel passaggio dal 2000 al 2001, percepii una strana sensazione: era intensa, ma allo stesso tempo sembrava volatile, come una farfalla che ti tocca e se ne va lasciandoti intontita.
Non era l’euforia di una fine d’anno come tante. Ne avevo alle spalle ben 43: brindisi, fuochi d’artificio, frizzi e lazzi di comuni mortali che si abbracciano e baciano senza sosta; ma mai, davanti a quella follia collettiva di spari umani e artificiali, che solo Napoli sa sopportare a suo rischio e pericolo, mai avevo avuto la sensazione di essere io stessa una specie di bengala, pronta per il lancio.
Fino ad allora avevo assistito a questo tipo di spettacolo con una certa partecipazione, chiedendomi le solite cose da ultimo dell’anno: “Come sarà il prossimo? Com’è stato quello trascorso? Cosa mi auguro che avvenga?”
Insomma, proprio le solite cose, e anche con un certo pudore, perché non amavo le banalità. Ma quella notte c’era dentro di me la percezione intensa di qualcosa in arrivo, qualcosa, invece, di completamente diverso. Come ubriacata da questo messaggio che, per la sua forza, sembrava arrivare da un’altra parte del Cosmo, ma credo fosse proprio così, mi ritrovai a premere il tasto del cellulare per fargli gli auguri.
“Pronto, volevo farle gli auguri di buon anno!”
“Anche a lei!”, rispose cordiale, e poi: “Perché non passa in Piazza Plebiscito per brindare al nuovo anno?”
“Beh, mi farebbe piacere, ma non credo sia possibile in questo momento attraversare la città in fiamme, sono alle Vigne!”
“Belle le Vigne”, rispose, “Comunque le rinnovo i miei auguri, ci sentiamo!”
“Grazie, a presto!”
Pensai che non fosse in sé: anche volendo, come avremmo potuto incontrarci in una Piazza così gremita? Poi mi dissi che, forse, aveva bevuto un goccio di troppo.
Napoli, ai miei piedi, continuava a sparare, mischiando nelle viscere il suo inferno e il suo paradiso di luci, mancava solo che il Vesuvio venisse contagiato da quella follia e che la città più criticata del mondo saltasse nell’acqua del golfo e andasse a fondo per sempre. Davanti a quella cartolina metafisica, che meglio di qualsiasi altra cosa parafrasava il mio stato d’animo, rimasi immobile per un bel po’ di tempo, mentre le voci dei festeggiamenti dalla casa in alto alle mie spalle, facevano da sottofondo, senza essere in grado di esprimere a pieno quel sentimento di forza dal quale ero pervasa. Un buon regista, volendo riprodurre fedelmente l’espressione della mia faccia come didascalia del mio stato interiore, avrebbe scelto una musica morbida, di quelle da 432Hz, e non rigidi schiamazzi di una folla affannata. Il mio stato era sublime: toccava la metafisica dell’essere. Non sapevo nemmeno io cosa fosse, ma era di certo uno stato “eccezionale” e radioso.
Lontano da me, ovunque, i bagliori dei fuochi. In acqua, sulla collina e nella città posta nel mezzo. Vicino a me, la mia ombra sul prato scuro e umido che ondeggiava staccata dal suolo. Aspettai che ogni suono si attenuasse e cominciai a scendere verso la strada dove i miei amici avevano parcheggiato l’auto. Ora mi parlavano, coprendo la voce di lui ancora viva in ogni centimetro del mio corpo. Quando mi trovai in strada, una specie di domanda, che aveva voglia di attaccarsi alle pareti del cervello, prese il posto di quell’eco: “Voleva essere un invito?” E ancora: “Come pensava che ci saremmo potuti incontrare in una piazza così gremita?”
Le ore passarono, lo scenario cambiò per ritornare alla normalità dopo l’euforia, ma niente dentro di me riprese il suo solito aspetto. Era come se fossi stata spostata su un altro binario. Nei giorni successivi, la percezione che ci fosse qualcosa in arrivo si rinvigorì al punto che la realtà divenne una specie di corpo estraneo di cui avrei voluto liberarmi. La sentivo come una rigida impalcatura contro ciò che, ormai ero convinta, stava per materializzarsi.